Vermiglio: il fascino (discreto) del cinema contadino
- Marta Frugoni
- 24 gen
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 4 feb
Disclaimer: l'articolo contiene spoiler!

Capita, periodicamente, che un film italiano attiri l’attenzione degli alti papaveri hollywoodiani, entrando nelle grazie dell’industria che ne fa così il suo protetto in vista della stagione dei “grandi” festival. Il prescelto, lo scorso autunno, è stato Vermiglio, di Maura Delpero.
Reduce dalla vittoria del Leone d’argento durante l’81ª Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia, la pellicola prende il nome dal paese di Vermiglio, disperso nelle montagne del Trentino. Ormai agli sgoccioli del Secondo conflitto mondiale, l’intera comunità si trova a dover “nascondere” due disertori, uno dei quali è un soldato siciliano, Pietro, la cui permanenza creerà un punto di svolta nelle vicende della famiglia Graziadei che lo ospita. La pellicola mostra nei dettagli la vita quotidiana del villaggio e dei suoi abitanti: le difficoltà vengono affrontate una alla volta, con un’accettazione rassegnata, la reazione di chi da sempre vive di stenti e si trova a fare i conti con la povertà, giorno dopo giorno.
D'altronde, “la guerra non è colpa di nessuno” e il film lo esplicita più volte, tanto che proprio nessuno sembra davvero biasimare i rifugiati, accolti anzi allegramente dal paese, e chi ci prova viene subito messo a tacere.
“Certo che scappare dalla guerra è proprio da vigliacchi. - - Forse se fossero tutti vigliacchi non ci sarebbero più guerre.”
Sebbene si tratti di un’opera corale, la protagonista ad honorem di Vermiglio è Lucia, la primogenita, il cui destino, ricalcando in modo tragicomico il martirio della Santa da cui prende il nome, sarà intrecciato inesorabilmente a quello del reduce siciliano. Invaghitasi di quest’ultimo, dopo un breve e timido corteggiamento, i due convolano a nozze, un matrimonio tanto felice quanto breve: finita la guerra, infatti, Pietro decide, a malincuore, di lasciare la sua sposa per tornare a casa ed informare la famiglia di essere sano e salvo. Da lì non farà più ritorno.

Alcune settimane dopo, proprio quando la famiglia Graziadei cominciava a preoccuparsi, un articolo di giornale informa tutto il paese della morte di Pietro, assassinato dalla prima moglie, giù in Sicilia.
La notizia della bigamia del marito getta Lucia, in dolce attesa, in una depressione pre-parto. Giudicata dal paese per essere stata poco coscienziosa ed essersi fidata ciecamente di “uno straniero”, quasi al termine della gravidanza, si lascia lentamente andare, nulla le resta se non la figlia che porta in grembo, una figlia che le ricorderà per sempre non solo la morte del marito, ma soprattutto il suo inganno.
A forza di fare Santa Lucia è diventata cieca pure lei.
A tenerla in vita saranno i suoi fratelli e le sue sorelle: il più grande, Dino, la va a cercare nei boschi, salvandola da quello che probabilmente sarebbe stato un suicidio; Ada, invece, cura la sua bambina appena nata, Antonia, la aiuta ospitandola nel convento in cui lei stessa alloggia, dopo aver preso i voti.
Sale quindi in superficie il vero leitmotiv di Vermiglio: la famiglia. È attorno ad una famiglia, i Graziadei, che si sviluppa la trama ed è sempre grazie a loro che traspare l’amore di Delpero per la sua terra d’origine, il Trentino. Parlando di una comunità, mostrandone le gioie ed in particolar modo i dolori, la regista descrive con precisione meticolosa i rituali, dalle feste di paese, alle più semplici cene in famiglia; la sua è una narrazione nostalgica ma priva di rimpianto, una dedica che arriva dal cuore senza essere sdolcinata.
È lampante - e dichiarata dalla stessa Delpero - l’ispirazione al cinema contadino di Ermanno Olmi, in particolare ad una delle sue opere più celebri: L’albero degli Zoccoli (1978).
Tecnicamente, da quest’ultimo prende il coraggio di “annoiare”: utilizza inquadrature ampie su azioni abitudinarie e lunghe scene il cui religioso silenzio viene rotto soltanto dai suoni della natura e dai Notturni di Chopin, “cibo per l’anima” per il padre di famiglia Cesare (Tommaso Ragno); propone una fotografia fredda, in tinta con i costumi dai toni grigi, glaciale come la neve che copre il villaggio e mostra senza edulcorare, la vita di campagna, i suoi ritmi dettati dai cicli della natura i quali soggiogano la vita degli animali e degli esseri umani.
Nonostante l’epoca e il luogo in cui le pellicole di Olmi e Delpero sono ambientate siano differenti, possiamo notare parallelismi nella vita dei protagonisti: le scelte difficili dettate dalla scarsità di risorse economiche, come per esempio dover scegliere a quale dei figli far proseguire gli studi, a discapito degli altri. Inoltre, anche Delpero pone al centro della storia gli “ultimi”, ovvero i bambini, le donne e i vecchi; mostrandoci la loro versione dei fatti e facendo esporre loro quesiti importanti, ne valida i pensieri e le emozioni.
Una storia di bambini e adulti, tra morti e nascite, delusioni e rinascite. Maura Delpero

Ma tutto ciò è abbastanza per essere ammessi nell’Olimpo hollywoodiano? Cosa spinge la critica a eleggere Vermiglio baluardo del cinema italiano? La risposta al quesito non va cercata nella pellicola stessa - che è ben riuscita, sì, ma nulla di nuovo - quanto nel sistema cinematografico in cui è inserita: possibile che l’industria statunitense ritenga degno di nota soprattutto ciò che tratta temi come la guerra (in particolare il secondo conflitto mondiale) o la povertà? La scelta di film come Nuovo Cinema Paradiso (Tornatore, 1990), Mediterraneo (Salvatores, 1992), La vita è bella (Benigni, 1998) o, più di recente, Io capitano (Garrone, 2023), confermano che sembra esserci un modus operandi nei confronti del cinema nostrano.
Vermiglio mostra il ritratto di un’Italia, come spesso l’abbiamo vista durante il neorealismo, affaticata e bisognosa: il sogno - non tanto proibito - degli alleati, che forse sperano ancora di poter essere i nostri salvatori.
m. f.
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