Marina Abramović tra resistenza, vulnerabilità e connessioni
- Valentina Crotta
- 14 mar
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 25 mar
In tempi dove guardarsi negli occhi è sempre più difficile, Marina Abramović, donna d’avanguardia, ci insegna attraverso il potere della performance a fermare il tempo e a usarlo come strumento di esplorazione interiore per connettersi con l’altro.
Tramite il suo lavoro, l’artista definisce il corpo umano un mezzo d’espressione artistica capace di trasmettere emozioni superando i propri limiti: allenando la mente e il corpo a sopportare dolore, fatica e tempo, è possibile trasformare la sofferenza in arte.
l’arte può salvare il mondo

Nata nel 1946 a Belgrado, attuale Serbia, Marina cresce in un ambiente rigido e austero: i suoi genitori, Vojo e Danica Abramović, erano eroi della resistenza partigiana comunista durante la Seconda Guerra Mondiale. La madre, in particolare, aveva un ruolo di rilievo nel Ministero della Cultura e ha sempre imposto un’educazione severa a Marina, controllando stringentemente la sua vita fino all’età di 29 anni.
Nonostante questa istruzione ferrea, trovò sollievo nel rapporto con la nonna con la quale condivideva valori religiosi e spirituali fondamentali per la sua formazione: fu proprio lei a supportare la giovane Marina ad avvicinarsi all’arte, per la quale provò da subito una forte attrazione.
Per questo motivo iniziò il percorso di studi all’Accademia di Belle Arti di Belgrado negli anni ‘60, dove iniziò sperimentando con la pittura prima di avvicinarsi alla performance art.
Negli anni ‘70 lasciò l'Ex Jugoslavia per esplorare nuove possibilità artistiche in Europa e, successivamente, negli Stati Uniti. Da allora, il suo lavoro ha influenzato profondamente il panorama artistico a livello internazionale cambiando definitivamente la storia dell’arte.
Il messaggio e l’impronta che voleva lasciare furono chiari fin da subito: tra il 1973 e il 1974 mise in scena un ciclo di performance (in totale dieci) chiamate Rhythm con cui definì il concetto di resistenza fisica ed emotiva attraverso atti estremi di vulnerabilità e rischio, con il coinvolgimento diretto del pubblico.
La più famosa della serie è Rhythm 0, realizzata nel 1974 a Napoli alla Galleria Studio Morra, dove Marina Abramović si pose inerme e passiva per 6 ore di fronte a un tavolo, mettendo a disposizione del pubblico 72 oggetti: alcuni innocui, come piume, fiori, miele, altri pericolosi, come forbici e coltelli. Un cartello spiegava chiaramente che il pubblico era libero di utilizzare in qualsiasi modo gli oggetti sul corpo dell’artista senza che lei reagisse.
L’evento ebbe un’evoluzione chiara: nella fase iniziale le persone si dimostrarono caute e gentili porgendole una rosa o toccandola con delicatezza, quasi intimidite di fronte a tale vulnerabilità.
Col passare del tempo però ci fu un'escalation di violenza: il pubblico divenne sempre più audace e crudele iniziando ad utilizzare gli oggetti più pericolosi; le tagliarono i vestiti, le incisero la pelle con un coltello (di cui porta tutt’oggi le cicatrici), la spinsero e, infine, le puntarono una pistola carica alla testa.
La situazione degenerò a tal punto da far scoppiare una lite tra chi la aggrediva e chi tentava di difenderla.
Alla fine delle 6 ore Marina iniziò a muoversi, il pubblico si disperse velocemente, incapace di affrontare la propria stessa brutalità.
Rhythm 0 rimane ad oggi una delle testimonianze più scioccanti dell’arte contemporanea, un esperimento sulla psicologia della violenza che dimostra come il comportamento umano, se privo di ogni limite morale e sociale, possa mostrare il suo lato sadico.
Questa performance ha lasciato in Marina Abramović non solo delle cicatrici sulla pelle, ma anche delle ferite interne causate dall’aver fronteggiato una dura realtà: le persone a cui viene dato in mano il potere, soprattutto agibile su un corpo di donna, lo utilizzano senza limiti e riserve, mostrando il loro lato più oscuro e pericoloso.
Un capitolo importante per comprendere la figura di Marina Abramović è il suo rapporto con Ulay, pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen, con cui strinse non solo una relazione sentimentale, ma anche una vera e propria fusione artistica.
Si incontrarono per la prima volta ad Amsterdam nel 1976. Entrambi provenienti da esperienze artistiche radicali, fin da subito condividono la stessa visione sull’arte performativa come mezzo di esplorazione. Iniziano così il loro percorso di vita, parallelo a quello lavorativo, definendosi “un’anima con due corpi”.
Insieme realizzarono opere basate sulla simbiosi, dove sottolinearono il rapporto tra individuo e relazione, spesso mettendo alla prova la fiducia reciproca, come dimostrato nella performance Rest Energy.

L’iconica esibizione vedeva i due artisti l’uno di fronte all’altro con un arco teso retto da Ulay, mentre Marina sorreggeva la freccia direttamente rivolta contro il proprio cuore.
Ciò che rende la performance ancora più intensa è l’utilizzo di microfoni per amplificare il battito cardiaco degli artisti, aumentando il senso di suspense. L’intera azione dura solo quattro minuti, ma è talmente carica di tensione e concentrazione che sembra dilatare il tempo.
L’arco teso è una metafora dell’equilibrio precario che esiste tra due persone in una relazione, in cui il confine tra fiducia e pericolo è sottilissimo.
Il titolo Rest Energy si riferisce a quell’energia invisibile che resta tra due corpi in tensione, non solo fisica, ma anche emotiva: è il residuo delle emozioni, delle paure e della fiducia che lega due persone, anche quando il rapporto si trova sull’orlo del collasso.

Tutti i rapporti si possono deteriorare, e così anche il loro, durato oltre un decennio, giunse ad un termine. Decisero, quindi, di separarsi con una performance simbolica, The loves: The Great Wall Walk, datata 1988, che li vede percorrere la grande muraglia cinese partendo dalle due estremità opposte per potersi incontrare a metà strada e dirsi addio per sempre.
Marina Abramović prosegue il suo percorso nella performance art e ne divenne un’icona globale, collaborando con il MoMa di New York nel 2010, dove mise in scena una delle sue opere più significative: The Artist is present.
La performance durata tre mesi ha ridefinito il concetto di presenza e connessione tra pubblico e artista: per un totale di 736 ore Marina è rimasta seduta in silenzio all’interno del museo di fronte a un tavolo vuoto. Il pubblico era invitato a sedersi di fronte a lei, uno alla volta, senza parlarle o toccarla, ma mantenendo solo il contatto visivo. Questa semplice ma potente interazione ha creato uno spazio di intensa connessione emotiva e di scambio energetico al punto che molti visitatori si sono commossi fino alle lacrime, mettendo in luce il bisogno umano di legami autentici in un’epoca dominata dalla comunicazione digitale e dalla frenesia.
Uno dei momenti più toccanti nella performance è stato l’arrivo di Ulay sedutosi di fronte a lei, a sua insaputa, dopo più di trent’anni di separazione.
Al suo arrivo l’atmosfera in sala è cambiata: i due si sono guardati negli occhi in silenzio, prendendosi le mani in un momento di riconciliazione che non ha avuto bisogno di parole. Questa scena rimane tutt’oggi uno dei simboli più celebri di perdono e connessione profonda.
Oggi Marina Abramović gestisce il suo Instituto MAI dove si possono vivere esperienze secondo il suo metodo. È riconosciuta come una delle artiste più influenti del nostro tempo grazie alla sua eredità che non risiede solo nelle performance, ma anche nella sua capacità di insegnare che la vera arte è quella che cambia le coscienze, che provoca spingendosi sempre un passo oltre al limite facendoci riflettere e vivere un’esistenza più profondamente consapevole.
v.c.
Che bella lettura! E che storia incredibile!